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In una serie di otto incisioni eseguite nel 1597 dal pittore fiammingo Hendrick Goltzius sul topos del ‘litis abusus’, un avido e debole litigioso si prepara, borse gonfie alla mano, ad adire una giustizia contenziosa dai tratti mostruosi. Il capo animalesco, le mani a forma di arpione e le estremità come grosse viti di legno simili a torchi sono segni di una grammatica visiva immaginata per comunicare l’idea del premere, o dello spremere1
Basterebbero questi suggestivi passaggi iconografici a introdurre la prospettiva con cui Paolo Broggio osserva la pace in rapporto alla giustizia criminale nell’Italia fra Cinque e Seicento: una prospettiva certamente non convenzionale. Originale, intanto, è la scelta di lambire appena il concetto nella rassicurante e irenica accezione corrente, come sinonimo di armonia e concordia. Semmai, lo sforzo dell’Autore si misura con la capacità di cogliere la pace nella sua arcana contiguità con la violenza. Il lettore percepisce questo straniamento fin dalle prime pagine, percorse da episodi più o meno recenti di criminalità mafiosa, dove paci, sovente suggellate da matrimoni, sospendono per qualche tempo lotte tra cosche e vendette trasversali. Così, si è subito invitati a familiarizzare con la fisionomia originaria e autentica della pace, «collegata alla violenza in quanto parte integrante dei meccanismi di faida»2. Da questa inconsueta angolatura, il volume offre un contributo interessante e significativo dentro un panorama di studi saturo di interpretazioni reiterate e stereotipe. Esattamente come la faida, la pace continua in larga parte ad essere marginalizzata o fraintesa; relegata in un angolo come un arcaismo, un residuo medievale dagli incerti contorni ‘privatistici’, pertanto incompatibile con il farsi dello Stato moderno e della sua giustizia pubblica, ispirata al processo penale obbligatorio, inquisitorio, indisponibile alle parti…….Continua a leggere

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